di Antonio
Tedesco

C’è un’ideale
continuità tra Qui rido io e I fratelli De Filippo. Il film di
Sergio Rubini sembra partire da dove quello di Mario Martone si era fermato. I
fratelli crescono e il teatro è il loro ambiente naturale. È l’aria che hanno
respirato, è il cibo di cui si sono nutriti. Martone nel suo film focalizza
l’attenzione sulla figura di Eduardo Scarpetta. Sul suo essere artista popolare
e uomo di grandi ambizioni, che dal teatro si riflettevano pesantemente anche
nella sua vita privata. Mosso da una sorta di voracità esistenziale, incapace
di contenersi nei limiti di un normale contesto familiare, debordante sulla
scena come nella vita, lasciò una traccia profonda in chi gli viveva vicino.
Nei figli soprattutto, legittimi o meno che fossero. Per tutti loro un faticoso
(non) rimosso. Il fardello esistenziale
dal quale non riuscirono mai, veramente a liberarsi. Il figlio legittimo,
Vincenzo, per il quale rimane la gravosa eredità del nome e della Compagnia da
gestire. Gli “illegittimi” figli di Luisa, i fratelli De Filippo, per i quali è
stato un sottile conflitto-tormento, una presenza-assenza, tanto aleatoria
quanto ingombrante. Che non ha mai smesso di aleggiare su di loro anche quando
le loro vite e le loro carriere hanno conosciuto sviluppi del tutto originali e
autonomi.

C’è una
continuità per molti versi anche stilistica tra i due film. Una precisa
ricostruzione d’ambiente, la capacità di restituire l’atmosfera di un tempo
sospeso tra vecchio e nuovo secolo. Dove il conflitto tra tradizioni
consolidate e nuove istanze sociali e artistiche si insinua lentamente prima di
esplodere. Scarpetta, nel film di Martone, cerca legittimazioni artistiche e
culturali che l’intellighenzia napoletana gli nega, seppur non sempre in
maniera aperta e dichiarata. Eduardo, nel film di Rubini, mostra l’irrequietezza
di chi sente pulsioni nuove e diverse che affiorano e smania per metterle a
fuoco e realizzarle. Peppino è quello che in maniera più diretta soffre di
tutti i tormenti che gli derivano da “una famiglia difficile”. Stretto tra una figura paterna che, forse,
non ha mai amato, e un fratello che cerca ostinatamente nel teatro il riscatto
da un’origine che, pur nota, resta sempre come incerta e sospesa. Un marchio
sociale annichilente, da cancellare attraverso l’arte. Ma tra i due fratelli
altrettanto potente è la figura di Titina. Attrice di infinito talento e
sensibilità che media finché può tra Eduardo e Peppino e alle loro smanie e
inquietudini oppone una più solida e immediata concretezza.
Merito di
entrambi i film è di non cadere nella (facile) trappola del teatro filmato. I
fratelli De Filippo, in particolare, nonostante i 142 minuti di durata
mantiene un buon ritmo narrativo fra flash-back dell'infanzia e vicissitudini
di adulti colti nel difficile momento delle scelte che segneranno la loro vita.
Una regia sicura quella di Rubini che mette a frutto la lunga esperienza
maturata sin dal suo esordio dietro la macchina da presa con La stazione,
nel 1990, e sostenuta da una non avara produzione (Agostino Saccà e RAI Cinema)
indispensabile per una precisa ricostruzione d’epoca. Ma il film deve molto al
decisivo apporto di uno straordinario cast che vede perfettamente a loro agio
nei ruoli di Eduardo, Peppino e Titina, rispettivamente Mario Autore, Domenico
Pinelli e Anna Ferraioli Ravel, coadiuvati da un ricco stuolo di comprimari,
tra i quali offre un’ottima prova Biagio Izzo, nel ruolo di Vincenzo Scarpetta,
mentre Giancarlo Giannini è Eduardo
Scarpetta (interessante il confronto con lo stesso personaggio interpretato da
Toni Servillo nel film di Martone), e poi Susy Del Giudice, Marisa Laurito,
Marianna Fontana e molti altri, con le partecipazioni speciali di Vincenzo
Salemme e Maurizio Casagrande, tutti efficaci e perfettamente “in parte” nei
rispettivi ruoli.
Il film è stato
presentato in anteprima al Teatro San Carlo il 6 dicembre e sarà nella sale 13,
14 e 15 dicembre, prima del preannunciato passaggio televisivo.
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