LA LUNGA PARABOLA DEL CINEMA NAPOLETANO DAGLI ANNI DEL “MUTO” AL NUOVO MILLENNIO

Di Antonio Tedesco



Il rapporto che si è sviluppato tra Napoli e il cinema è storia antica, che risale agli albori del cinema stesso. E che non si è mai interrotto fino ad oggi, pur esprimendosi in forme e modi diversi a secondo dei tempi. Una storia articolata e fortemente inscritta nello spirito della città, che meriterebbe una più diffusa conoscenza anche al di fuori degli ambienti più specialistici. E che trova il suo momento più significativo ed affascinante allo stesso tempo, nei primi decenni del Novecento, quando il cinema era ancora un’arte in divenire e gli spazi di invenzione e creatività erano ancora molto ampi. Su questo specifico periodo, una sorta di trentennio d’oro (1895-1924), si è incentrata un’interessante conferenza tenuta di recente (venerdì 24 maggio presso la Casa dello Scugnizzo, a Materdei) da Roberta Verde, una giovane studiosa napoletana che collabora alla cattedra di Storia del Cinema dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. 
Una carrellata giocoforza rapida, ma accurata ed esauriente, quella tenuta da Roberta Verde, che ha contestualizzato con precisione il fenomeno del Cinema napoletano delle origini nella situazione socio-urbanistica della città a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ha illustrato temi e figure che nutrivano quel cinema. E ha brevemente tratteggiato ritratti di pionieri della “settima arte” quali i fratelli Troncone e la loro rivoluzionaria ripresa dal vero di un’eruzione del Vesuvio (1906) che fece il giro del mondo, Menotti Cattaneo, tra i primi imprenditori ad intuire  le potenzialità del settore aprendo innumerevoli sale di proiezione, Gustavo Lombardo che oltre a fondare riviste specializzate impiantò per primo una società di distribuzione delle pellicole, fino ad Elvira Notari, napoletana e prima donna regista del cinema italiano. Giusto per accennare solo a qualcuno dei molti argomenti trattati nel corso della conferenza, arricchita da slide, filmati e foto che hanno contribuito ad offrire una visione più diretta ed immediata della singolarità e dell’importanza di quel fenomeno. 
Un incontro stimolante che mette le basi per andare oltre la semplice curiosità o la rievocazione storica, e che può suscitare riflessioni non certo marginali anche sulle espressioni più recenti (si può parlare orientativamente dell’ultimo ventennio) di quello che potremmo definire il “cinema napoletano”.
Infatti, se riconsideriamo le caratteristiche che hanno distinto il cinema fatto a Napoli negli anni del “muto”, possiamo vedere come questo sia stato segnato da una forte matrice popolare. Mentre altrove lo stesso cinema veniva maneggiato, in quegli anni, con una neutralità oggettiva come strumento (per il tempo estremamente sofisticato) di intrattenimento e di narrazione, finzione o documentario che fosse, e Méliès in Francia ne faceva una sorta di “macchina delle meraviglie”, a Napoli il cinema si innestava in maniera del tutto naturale e spontanea all’interno del tessuto culturale e popolare più radicato della città. Raccontava in prevalenza storie del popolo nella lingua del popolo. Si avvaleva degli strumenti espressivi che il popolo già padroneggiava (la canzone soprattutto, ma anche il romanzo di appendice di ambientazione cittadina, Mastriani in particolare). Si proponeva prima ancora che come strumento di evasione, come veicolo di partecipazione. Non raccontava un “altrove” lontano che faceva “sognare” altri tipi di pubblico in Italia e in altri luoghi del mondo, ma il “qui e adesso” nel quale ci si poteva rispecchiare e riconoscersi. Tutti elementi che marcano, ancora una volta le peculiarità della città e dei suoi mezzi di espressione artistica.
Un cinema che ha avuto la possibilità di rimanere autonomo – e anche autoreferenziale – per un breve periodo, poco più di due decenni, fin quando i progressi della tecnica (a partire dal sonoro) e le esigenze della politica e del mercato, non hanno imposto all’arte cinematografica un’impronta fortemente industriale e una concentrazione di mezzi e risorse che hanno soffocato la spontaneità produttiva dei primi anni (che aveva caratterizzato anche altre cinematografie nel mondo in posti come il Giappone, l’India, l’Australia ecc.). In questo modo, per un lungo arco di tempo, pur rimanendo una città ad elevato “tasso filmico”, il cinema ambientato (e non più “fatto” nel senso più completo della parola) a Napoli, ha dovuto giocoforza cedere parte della sua immediatezza e della sua visceralità alle esigenze del mercato.
Ma il mercato cambia, le tecniche si evolvono, le condizioni mutano e questa tendenza, tra la fine del Novecento e i primi decenni del nuovo Millennio, sembra essersi di nuovo invertita.
La produzione di cinema che ruota intorno a Napoli, pur non essendosi mai fermata, ha ripreso negli ultimi anni a muoversi secondo logiche che maggiormente aderiscono alle proprie specifiche caratteristiche culturali e sociali. Favorito probabilmente anche dalla maggiore “leggerezza” offerta dalle tecniche del digitale, il cinema sembra essersi calato di nuovo nelle “viscere” della città, esprimendosi dall’interno di essa, dal suo eterno ribollire sociale e culturale, e non calando sulla sua realtà uno sguardo esterno, come era stato nella gran parte dei casi nei lunghi decenni che dall’avvento del sonoro arrivano alle soglie degli anni Duemila (tranne che per fenomeni isolati e comunque segnati da un tratto folclorico-populistico, come i casi pur rilevanti di Mario Merola, Pino Mauro e Nino D’Angelo testimoniano).


Se non si può propriamente parlare di un ritorno alle origini – le condizioni storiche, economiche, sociali, sono ovviamente, estremamente difformi – si può dire, però, che un certo cinema più recente e più avveduto si sia di nuovo immerso pienamente nel “corpo di Napoli”. Registi come Gaudino, Di Costanzo, Marra, che si muovono ai margini tra documentario e finzione (ma non era così anche per i film della Notari, di Perego, dei Troncone ai tempi del “muto”?) si calano nel cuore   vivo e palpitante della città e fanno scaturire da esso le sue storie. Senza mediazioni e sovrastrutture artificiose. Adeguando il linguaggio, sia delle immagini che del parlato, a quello del reale, riscoperto come elemento culturale irrinunciabile. Anche se questo in molti casi può portare alla scelta di sottotitolare i propri film. Attuando così un procedimento per molti versi uguale e contrario a quello che, negli anni del muto prevedeva didascalie scritte in napoletano, come alcuni frame mostrati durante la conferenza di cui sopra detto, testimoniano. Si tratta in entrambi i casi di un tentativo ben riuscito di preservare la forza e l’immediatezza d’impatto dell’immagine stessa, di non renderne la percezione ibrida. La differenza sta forse nel fatto che se questo escamotage contribuiva al cinema napoletano delle origini di guadagnare, in città,  spettatori che col dialetto si sentivano più a loro agio, i registi contemporanei, si riappropriano del valore espressivo e culturale della lingua correntemente parlata in nome di una maggiore immediatezza e verità di espressione. Coerentemente con quest’ottica lo spazio della città si allarga alle periferie e al vasto hinterland (adeguando la recitazione alle relative sfumature dialettali) perché è lì che oggi la vita ribolle con maggior turbolenza, e con essa le nuove forme allargate del disagio metropolitano. Così come ai tempi della Notari succedeva nei vicoli del quartiere Stella, ai Tribunali o a Portamedina. Ma pur volendo fermarsi a solo titolo di esempio al più stretto ambito cittadino, Ferrente e Piperno con Le cose belle (2013) e Ciop&Caf con Il segreto (2013) (per citarne, appunto, solo due) penetrano in una realtà sociale e territoriale profonda, riportandola per quello che è, senza filtri o schermature di comodo. E in questo modo, quasi per contrasto, riescono a fare documentario come se fosse fiction, realizzando opere dal forte impatto umano ed emotivo. La città torna così ad appropriarsi delle proprie peculiarità. Torna, come forse non succedeva proprio dai tempi del muto, alla “presa diretta” di se stessa. Sull’onda del lavoro fatto già negli ultimi decenni del Novecento da registi come Piscicelli e Capuano. Esercitando, grazie a questa rinnovata scoperta di sé, una forza di attrazione che non ha lasciato indifferenti neanche cineasti non napoletani, come Garrone, Amelio, Ozpetek.
Ma ancora, ci sarebbe da parlare del lavoro di De Angelis, di Martone, di Incerti e di altri ancora. Ognuno a rappresentare una delle innumerevoli facce di una città che da sempre sfugge ad ogni tentativo di ordine o catalogazione.

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