Giovani mariti, sessanta anni portati bene…


Di Ciro Borrelli



Al festival di Cannes del 1958 il cinema italiano è rappresentato da due film: L’uomo di paglia di Pietro Germi e Giovani Mariti di Mauro Bolognini. Le aspettative dell’opinione pubblica italiana si riversano sul primo dei due, il cui protagonista è un padre di una famiglia, interpretato dallo stesso regista, che sta per vivere un dramma tipicamente borghese.  Sulla stregua del suo capolavoro, Il ferroviere, Germi cerca di bissare il suo successo, ma i francesi non apprezzano la buona volontà del regista e degli interpreti del film, quindi la pellicola non va oltre la semplice presentazione al concorso. Giovani mariti invece ottiene un premio per la sceneggiatura, alla quale hanno messo mano, tra gli altri Pier Paolo Pasolini, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile e lo stesso regista. Inoltre il direttore della fotografia, in splendido bianco e nero, Armando Nannuzzi si aggiudica il Nastro d’Argento. Gli sceneggiatori sembrano partire da un soggetto simile a I Vitelloni di Fellini e Flaiano; basti pensare alla vena autobiografica che rimanda alla comune vita provinciale dei protagonisti. Muta, però, non poco lo schema del film, lasciando allo spettatore la sensazione che il tema centrale non sia stato portato fino in fondo. Il soggetto felliniano è più grottesco, quello di Bolognini invece più lirico, ma al tempo stesso meno sentimentale.

Giovani mariti resta un film decisamente importante, non solo per la carriera del regista, ma anche per il cinema italiano. Difatti con questa pellicola Bolognini, che fino ad allora sembrava prigioniero della commedia popolaresca, con Gli innamorati o Marisa la civetta, con Giovani mariti rompe le catene della classica commedia all’italiana incentrando il film sull’aspetto sociologico ma soprattutto poetico. Questa pellicola rappresenta una svolta per il cinema italiano perché il neorealismo dei grandi maestri quali De Sica, Visconti e Rossellini è ormai lontano, almeno nell’accezione del cinema di fine anni Quaranta.
Mancano - come dire -  il messaggio e la poesia del documento. Il critico, e scrittore Tullio Kezich, in merito: “Al regista non interessano i termini concerti della situazione, la critica di costume, il messaggio: non gli interessano neppure (e questo è il difetto che rende il film alquanto gracile) i singoli personaggi, con il peso dei loro problemi. Fino a poco tempo fa, Bolognini sarebbe stato tacciato di eresia: oggi i più si rendono conto che il cinema può raccontare anche in questo modo e le vie della sua esperienza sono infinite”[1]. Il film comincia con i protagonisti maschili, cinque amici poco più che ventenni di buona famiglia, che corrono all’impazzata per la città di notte, si ubriacano, molestano i malcapitati che incontrano, importunano osti e prostitute. L’indomani uno di loro si sposa, e gli altri quattro continuano a bighellonare per la città, chi collezionando amori inutili, chi sognando la donna della propria vita, chi cercando di dare un senso alla sua esistenza, prima di congedarsi, tristemente, chi prima,  chi dopo, dalla giovinezza. I maschi, che si autodefiniscono “i leoni”, solo apparentemente possono ricordare I vitelloni di Fellini. Rispetto a questi ultimi, i leoni (il riferimento è ai leoni che combattevano con i gladiatori nell’anfiteatro romano presente a Lucca, città che non viene mai menzionata ma nella quale è ambientato il film) sono più cinici, più irruenti, anche più violenti, ma soprattutto più contraddittori. Il loro interesse principale non è quello di scaldare le sedie dei caffè della riviera romagnola, o sognare ad occhi aperti; è quello, invece, di far collezione di donne, senza preoccuparsi – in alcuni casi - di nascondere un senso di rancore verso il gentil sesso, che sfiora quasi la misoginia.

Tra gli interpreti emergono Franco Interlenghi ed Antonio Cifariello. Le protagonisti femminili del film, che sembrano schierate su un fronte apposto, sono viste secondo una prospettiva distante, incomprensibile per l’altro sesso. Tra loro Silvia Koscina ed Antonella Lualdi. Questo dell’inconciliabilità tra ragazzi e ragazze è un tema fondamentale, ottimamente evidenziato dal Bolognini. Le ragazze sono delle giovani borghesi, smaliziate, che non perdono una messa domenicale, apparentemente ben educate, rispettose, rispettate e ben integrate nei salotti bene della cittadina, ma pronte a civettare ed amoreggiare con i ragazzi, lontane da occhi indiscreti. Bolognini lascia trasparire l’ipocrisia del tipico mondo borghese di quel tempo, non molto lontano – a mio avviso - da quello delle piccole cittadine di oggi, dove la meschinità e la maldicenza la fanno da padrone. Persino la migliore delle ragazze, Lucia, interpretata dalla Lualdi, sembra non comprendere il sentimento di timore e nostalgia che prova Marcello, interpretato dall’attore francese Gerard Blain, quando per lavoro è costretto a lasciare tutto: la sua città, la sua donna ed i suoi amici.

Giovani mariti è un film non solo sulla fine della giovinezza e dell’amicizia, ma sullo scontro tra uomini e donne, sull’irruzione della donna nel mondo chiuso dei maschi. Ciò che rende assolutamente magico ed insolito il film è l’ambientazione! La città scelta del regista è Lucca, non Pistoia, la sua città natia. La città versiliana fornisce una scenografia quasi inedita di rara bellezza: è una cassa armonica che amplifica e nobilita i personaggi. Ed è una città spesso notturna, deserta, malinconica, che toglie peso al realismo. Certe invenzioni sembrano ricordare, ancora una volta, i film di Fellini, come la baracca del tiro a segno nella piazza dell’anfiteatro ed il fiumiciattolo dove i giovani si immergono per spezzare la monotonia che li assale.


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