Paolo Stoppa, la versatilità della sua arte si rivelò tra le più varie e complete del teatro italiano dei suoi tempi. A 30 anni dalla morte


Di Anita Curci



“Paolo Stoppa non è composto, non è misurato, non si sorveglia… Stoppa strafà, ha la comicità pronta, fertile, sicura, prodiga. È un brillante che brilla”, così scriveva Ferdinando Palmieri su Scenario dell’agosto del 1942, proseguendo: “Fra tanta comicità moderna senza immaginazione, fra tanta comicità di attori, pallida e fievole, il brillante Stoppa sia il benvenuto: sul palcoscenico e sullo schermo, coi suoi falsetti, i suoi impacci, i suoi ticchi, il suo volto stupefatto, i suoi gagà, le sue smorfie, i suoi irritabili nervi…”.
Al nome dell’attore romano, nato nel 1906 e morto nel 1988, sono intimamente legati spettacoli che hanno caratterizzato la storia del teatro italiano, ma anche quei film collocati ormai nel tempo in una dimensione mitica dove, pur non sempre essendo l’attore principale, seppe guadagnarsi degna attenzione. E non ci si riferisce soltanto a Processo alla città di Luigi Zampa del ‘52, a La passeggiata di Renato Rascel del ‘53; a Carosello napoletano di Ettore Giannini del ’54; a Siamo uomini o caporali? di Camillo Mastrocinque, con Totò, del ’55; a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, con Alain Delon, del ‘60; a Il gattopardo ancora di Visconti, con Burt Lancaster e Claudia Cardinale, del 1963 o a C'era una volta il West di Sergio Leone, con Charles Bronson, Henry Fonda, Gabriele Ferzetti, del 1968; o a Il marchese del Grillo di Mario Monicelli che gli valse il premio Nastro d’Argento come miglior attore non protagonista nel 1982, un riconoscimento già ricevuto nel ’55 per il film L'oro di Napoli di Vittorio De Sica (senza contare la Grolla d'Oro ricevuta nel 1956); né si fa riferimento soltanto alle partecipazioni a film stranieri, non ultimo Becket e il suo re del ‘64 diretto da Peter Glenville, al fianco di Richard Burton; ma ci si basa su una sterminata filmografia alla quale è impossibile fare ulteriore accenno in queste poche righe.
Si sa che suo padre fosse un antiquario, ma Paolo si rifiutò di perseguire le orme della tradizione famigliare essendo già dotato di uno spiccato talento espressivo, perciò si iscrisse alla Reale scuola di recitazione “Eleonora Duse” dell'Accademia di Santa Cecilia a Roma, palcoscenico sul quale debuttò dopo aver recitato in numerose compagnie come la Wanda Capodaglio-Corrado Racca- Egisto Olivieri. Siamo intorno al 1927.



Nel 1938 approdò al Teatro Eliseo. Una data e un luogo importanti, qui sancì un sodalizio di lavoro e d’amore con l’attrice napoletana Elvira Morelli, detta Rina, con la quale, fino al 1976, anno della scomparsa di lei, s’impose con grande considerazione del pubblico e della critica sulla scena italiana, grazie anche alla collaborazione con Luchino Visconti che dal 1945 diresse la coppia in diversi spettacoli.
Sono gli anni di Spirito allegro di Coward; Arsenico e vecchi merletti di Kesselring; Antigone di Anouilh e A porte chiuse di Sartre; Zoo di vetro di Tennessee Williams; La locandiera e L’impresario delle Smirne di Goldoni; Morte di un commesso viaggiatore e Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller; fino a giungere agli anni Sessanta con L'Arialda di Giovanni Testori e Zio Vania (1965) di Anton Cechov.
“La prima sterzata di Stoppa, che non sfuggì ai più attenti, fu, nel 1945, l’interpretazione di Topaze di Marcel Pagnol”, si legge in un numero del Radiocorriere Tv degli anni Sessanta, “nel disegnare il suo personaggio, che da oscuro professore diventa un importantissimo finanziere attraverso l’abbandono sistematico di ogni scrupolo e di ogni remora di coscienza, egli seppe equilibrare l’amaro e il grottesco con una misura esemplare, pervenendo alla vera creazione di un ‘carattere’ con una straordinaria semplicità di mezzi”.
Nell’articolo ben chiara è l’idea del redattore quando dichiara: “Da quel momento in poi certe apparizioni di Stoppa alla ribalta (governata e illuminata da Visconti) scandirono un tempo ideale per gli appassionati della prosa”. Appassionati che lo ammirarono nell’Antigone, ma


anche nell’Euridice di Anouilh, dove entrava nello squallido caffè della stazione, in impermeabile e con la falda del cappello abbassata. O in Delitto e castigo di Dostoevskij, dove si muoveva a passo rigido nella notte illuminata solo dal lume di una candela, col braccio proteso nel buio nell’atto di aprirsi un varco nell’ignoto… Le sue interpretazioni, come si legge nel Radiocorriere Tv, furono qualcosa di più della matura conseguenza di intelligenti promesse, furono l’acquisizione di una vibrazione nuova, non più soltanto drammatica, “ma dichiaratamente tragica, posta in luce specialmente nelle interpretazioni cechoviane, dall’Andriej delle Tre sorelle di Cechov…”.
Stoppa recitò anche Shakespeare a dimostrazione della versatilità della sua arte, che si rivelò tra le più varie e complete del teatro italiano dei suoi tempi. 

Si distinse anche nel settore del doppiaggio, fondando e sostenendo la C.D.C. (Cooperativa Doppiatori Cinematografici), e destinando la sua voce a nomi del calibro di Richard Widmark, Kirk Douglas, Jack Carson e Fred Astaire.



Morendo nello stesso anno sia l’amata Rina che Visconti, Paolo cadde in una profonda prostrazione psicologica. Fu l’amicizia con l’attrice milanese Franca Valeri a riportarlo al mondo dello spettacolo nel 1978, facendolo ripartire, al suo fianco, dal Festival dei due Mondi di Spoleto con una commedia americana dal sapore amaro Gin Game diretta da Giorgio De Lullo.
Stoppa non si risparmiò nemmeno per la televisione, esordendo insieme alla compagna Rina negli anni Sessanta nelle vesti di Carlo Day nello sceneggiato Vita col padre. Nel ‘70 interpretò la parte dello scienziato inventore del telefono in Antonio Meucci, cittadino toscano, contro il monopolio Bell. Indimenticabile nel ruolo del sensitivo Gerard Croiset in ESP; nella serie televisiva Il commissario De Vincenzi; in Don Ippolito nel celebre L'amaro caso della baronessa di Carini e nel personaggio di Arpagone nella trasposizione televisiva L'avaro di Molière diretto da Giuseppe Patroni Griffi.
Una grave forma di leucemia, della quale era stato sempre accuratamente tenuto all’oscuro, se lo portò via all’età di ottantadue anni.


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